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“Li parauli” nell’ultima notte dell’anno (24)

Sardegna simbolica - Una rubrica dedicata alla spiritualità del popolo sardo

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Di Lorella Marietti

Una tradizione gallurese antica, tramandata tra Natale e Capodanno, custodisce una particolare concatenazione e ripetizione di parole (parauli) che vengono recitate la notte del 31 dicembre.

 

Queste parole sono un esempio di poesia popolare sarda, come anche le ninne nanne (anninnias) o i lamenti funebri (attitos).

 

Li parauli vengono spesso associate ai berbos (o brebus o verbos), formule invocative  utilizzate per svariati motivi: trovare oggetti ed animali smarriti, proteggere il gregge o il raccolto, guarire le malattie dei bambini, contrastare il malocchio, far smettere di abbaiare i cani e perfino danneggiare le persone.

 

In realtà li parauli sembrano piuttosto rientrare nel filone dei Canti enumerativi, cioè che presentano un elenco (di numeri, di giorni della settimana, di strumenti musicali, di nomi degli animali…), ma anche cumulativi, ossia che ripetono un elenco aggiungendo un elemento ad ogni strofa.

 

Si rifanno a questo modello canzoni note come “Alla fiera dell’Est” di Angelo Branduardi e canti popolari come “Mia mama vol chi fila”, “Alla fiera di Mastr’André”, ecc.

 

Si tratta di filastrocche che hanno scopi di apprendimento (numeri, mesi, giorni, nomi, parti del corpo, ecc) e di stimolazione delle facoltà mnemoniche, ma sottintendono anche un significato rituale e talvolta catechetico, come nel caso del canto ebraico del Chad Gadya, che ripercorre in modo simbolico la storia di salvezza del popolo di Israele narrata nella Bibbia.

 

Li parauli sembrano seguire questo schema, associando ai numeri una sorta di catechismo riconducibile ai primi secoli cristiani:

 

Unu: È più altu lu sóli di la luna”.

Il rapporto Sole-Luna viene usato dai Padri per spiegare il rapporto tra Cristo e la sua Chiesa. Cristo è definito “Sole che sorge dall’alto” in Lc 1,78 e la luna è figura della Chiesa, che brilla di luce riflessa ed è chiamata “Mysterium Lunae”.

 

Dui: Li dui tauli di Mosè, candu è andatu Ghjésu Cristu a Ghjérusalè;

unu è più altu lu sóli di la luna”.

I Padri mettono in relazione la salita di Mosè sul monte Sinai per ricevere le tavole della Legge e la salita di Gesù a Gerusalemme per ricevere la Croce.

 

Tre: Li tre Almarii; dui li dui tauli di Mosè, ecc.

Cattru: Li cattru Evangelisti; tre li tre Almarii, ecc.

Cincu: Li cincu piai; cattru li cattru Evangelisti; ecc.

E così via, fino al numero “Dodici: Li dódici apostuli”.

 

Interessante il numero “Undici: L’undici vilgjini” che, nella versione utilizzata a Siliqua, appare come “undixi funt is undiximila virginis”: entrambi i riferimenti sono riconducibili a un racconto del IV secolo sul martirio di numerose vergini cristiane.

 

Secondo questo racconto, gli Unni uccisero la figlia del re bretone, Orsola, e le undici vergini (undicimila in un’altra versione) che viaggiavano con lei: la differenza di numero pare possa essere attribuita a un errore di trascrizione del documento dell’anno 992 che riferisce questo episodio ed è conservato in un monastero nei pressi di Colonia. In questa città è stata eretta una basilica dedicata alle vergini martiri e l’eco della loro storia ha raggiunto anche le parauli.

 

Un altro canto enumerativo è il brano celtico intitolato “Les Séries ou Le Druide et l’enfant, ossia “Le serie (dei numeri) o Il Druido e il bambino”, tratto dal Barzaz Breiz (Ballate di Bretagna), che è considerato come la “Bibbia” delle canzoni e delle tradizioni bretoni. Il canto contiene un dialogo tra un druido e un bambino, nel quale vengono elencati temi mitologici, filosofici, cosmogonici, come il destino, la trasmigrazione delle anime, eccetera.

 

Il cantautore Branduardi scrive: “Le canzoni enumerative sono diffusissime. Fascino dei numeri che spiegano la totalità del mondo mettono ordine nella confusione dei fenomeni”.

Tra l’altro il testo della sua canzone “Alla fiera dell’est” s’ispira liberamente proprio al canto ebraico già citato: questo comincia con “Un capretto che mio padre comprò per due susim (denari)” e prosegue dicendo “E venne il gatto, che mangiò il capretto, che mio padre comprò per due susim”, mostrando un evidente parallelismo con “Alla fiera dell’Est, per due soldi, un topolino mio padre comprò. E venne il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo…”.

 

Il principio compositivo di questi canti varca i confini e i mari. E in Sardegna i dodici parauli recitati alla fine dell’anno sembrano chiudere idealmente i dodici mesi trascorsi.

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