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Antico sposalizio selargino, nuove catene d’amore (39)

Sardegna simbolica - Una rubrica dedicata alla spiritualità del popolo sardo

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Di Lorella Marietti

Ogni anno, la seconda domenica di settembre, si svolge nel sud della Sardegna l’Antico Sposalizio Selargino, che il Ministero della Cultura ha formalmente riconosciuto come una delle celebrazioni storiche più significative d’Italia, inserendola nell’elenco dell’ICPI -Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale.

 

Non è soltanto la rappresentazione fedele di una tradizione campidanese ultracentenaria con abiti e usanze che risalgono al 1700, ma è anche un matrimonio corale e identitario che coinvolge l’intera cittadina di Selargius e che prevede l’incatenamento degli sposi e promesse d’amore suggellate su una pergamena.

 

Tutti i balconi si vestono a festa colorandosi con fiori e arazzi, le vie del centro storico e le antiche case campidanesi diventano un immenso palcoscenico che ospita le diverse fasi di questo evento: dalle serenate sotto i balconi (Sa cantada a is piccioccas), al trasporto del corredo della sposa, letto incluso (Su trasferimentu de is arrobas); dalla vestizione degli sposi con gli eleganti abiti della tradizione arricchiti da preziosi gioielli in filigrana (Is prendas), alla benedizione delle madri (sa razia), fino al rito religioso di Sa Coja Antiga Cerexina, seguito dalle promissas d’amore trascritte e sigillate nella vicina chiesa romanica di S.Giuliano dove saranno custodite per 25 anni per poter poi essere finalmente riaperte e lette, e naturalmente il banchetto nuziale (su cumbidu).

 

Gran parte della comunità selargina indossa l’abito tradizionale e vi partecipano anche i rappresentanti degli altri Comuni sardi con i loro costumi tipici. Tutti accompagnano gli sposi nel loro corteo nuziale con scenografici carri trainati da buoi, calessi addobbati a festa, cavalieri e suonatori di launeddas, fino alla chiesa della Santissima Vergine Assunta, dove si svolge il rito di Santa Romana Chiesa completamente in lingua sarda campidanese, come nella tradizione degli avi.

 

Dopo il fatidico sì e lo scambio degli anelli, gli sposi vengono legati con sa cadena, la catena nuziale d’argento, simbolo dell’indissolubilità e dell’eternità del loro amore. Lo sposo infila il mignolo della mano destra in un piccolo anello collegato all’estremità della catena che cinge la vita della sposa, perché “custu amori depit durai tottu sa vida”.

 

Le origini di questa singolare tradizione campidanese, riportata al suo antico splendore negli anni ’60, si trovano nelle usanze maritali dei secoli XVIII e XIX, come riportano fonti scritte e orali. Dal punto di vista simbolico colpisce in modo particolare il gesto dell’incatenamento scelto come apice ed emblema di questo antico rito nuziale.

 

Sorprende non solo perché oggi il matrimonio è in forte declino – e lo è specialmente quello religioso che è sinonimo di legame perpetuo – ma soprattutto perché il concetto di catena sembra avere significati esclusivamente negativi: dal “mettere in catene” allo “spezzare le catene”, dalle catene di sant’Antonio fino agli aforismi contro il matrimonio come quello di Alexandre Dumas che scrive «il matrimonio è una catena così pesante che per portarla bisogna essere almeno in tre».

 

Eppure la catena dell’antico sposalizio selargino non ha evidentemente alcuna valenza negativa e appare perciò in controtendenza. Da dove nasce questo simbolo positivo di amore eterno? La risposta potrebbe essere rintracciata nelle fonti della religiosità popolare, fenomeno affascinante su cui si è pronunciato anche il magistero ecclesiale.

 

Ad esempio papa Francesco ha scritto che ogni specifica comunità «offre testimonianza alla fede ricevuta e la arricchisce con nuove espressioni che sono eloquenti» (EG n. 122) e infatti nella religiosità popolare «si può cogliere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una cultura e continua a trasmettersi» (EG n. 123).

 

Inoltre nel “Direttorio su Pietà popolare e liturgia” si legge che le tradizioni religiose comunitarie «si esprimono prevalentemente non con i moduli della sacra Liturgia, ma nelle forme peculiari derivanti dal genio di un popolo» (n. 9) il quale «dà luogo ad una sorta di “cattolicesimo popolare”, in cui coesistono, più o meno armonicamente, elementi provenienti dal senso religioso della vita, dalla cultura propria di un popolo, dalla rivelazione cristiana». (n. 10).

 

In quest’ottica si può notare che nel Catechismo Romano, o Tridentino, promulgato nel 1566, i Sacramenti sono visti proprio come catene che legano e uniscono i fedeli tra di loro e a Cristo nella comunione dei santi (Cat. Trid. n. 118), un parallelo che la sensibilità popolare sembra aver voluto rendere concreto e visibile nello Sposalizio Selargino.

 

Ma perché scegliere, tra tutti i Sacramenti-catene, proprio quello del Matrimonio? La risposta sembra essere presente nel medesimo Catechismo, là dove si cita san Paolo che a proposito del matrimonio dice «veramente grande è questo sacramento; io intendo dire in Cristo e nella Chiesa (Ef 5,28-32)» e, a mo’ di commento, il compilatore aggiunge «La frase ‘grande è questo sacramento’ va riferita indubbiamente al Matrimonio» (Cat. Trid. n. 292).

 

Il motivo è che «fra tutte le relazioni fra esseri umani nessuna vincola più strettamente dell’unione matrimoniale; nessun amore è più forte di quello che passa fra marito e moglie. Per questo la Scrittura raffigura molto spesso l’unione divina di Cristo con la Chiesa mediante l’immagine delle nozze» (Cat. Trid. n. 292).

 

C’è poi un altro paragone che riporta al concetto degli sposi in catene: quello della schiavitù. Infatti nel Catechismo Tridentino si afferma pure che i coniugi sono «schiavi l’uno dell’altro» (n. 335).

Questo paradosso sembra chiarirsi solo alla luce di un altro passo paolino: quello su Cristo che prese «la natura di schiavo» (Fil 2,7) poiché era venuto «non per essere servito, ma per servire» (Mc 10,45) e quindi, allo stesso modo, tra i cristiani, «chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo» (Mt 20, 27) e «siate sottomessi gli uni agli altri» (Ef 5,21), «portando gli uni i pesi degli altri» (Gal 6,2).

 

È un rovesciamento della piramide del potere, è l’opposto della prevaricazione, è la reciproca consegna di sé stessi, è una gara di generosità, è anticipare sempre l’altra persona, ma è un concetto così difficile, così “duro”, che sembra poter funzionare solo per amore e solo se viene scelto liberamente, come nel caso degli sposi, e con il consenso di tutta la collettività.

 

Nel Campidano la religiosità popolare vuole forse indicare lo sposalizio selargino come paradigma di unità sociale e come modello per ogni altra relazione umana?

 

Immagine: Fiorella e Davide, gli sposi selargini dell’ultima edizione, fonte web: Materiali istituzionali “Antico Sposalizio Selargino-Sa Coja Antiga Cerexina”.

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